Secondo il mito, nel corso di una battuta di caccia, Atteone provocò l'ira di Diana, quando la sorprese mentre faceva il bagno insieme alle sue compagne all'ombra della selva Gargafia. Il caldo estivo, infatti, la indusse a riporre le vesti e a rinfrescarsi interrompendo la caccia. La dea, per impedire al cacciatore di proferir parola intorno a quello che aveva visto, trasformò il giovane in un cervo spruzzandogli dell'acqua sul viso. Atteone si accorse della sua trasformazione solo quando scappando giunse a una fonte, dove poté specchiarsi nell'acqua. Intanto il cacciatore venne raggiunto dai suoi 50 cani, resi furiosi da Artemide, che, non riconoscendolo, sbranarono il loro vecchio padrone. I cani, una volta divorato Atteone, si misero alla ricerca del loro padrone per tutta la foresta, riempiendola di dolorosi lamenti.
Più tardi giunsero nella caverna di Chirone il quale donò loro un'immagine del loro padrone per attenuare il loro dolore.
Se dovessimo scegliere un'opera che illustri con illuminante evidenza la contaminazione tra scuole pittoriche e piattaforme referenziali fortemente
caratterizzate, il dipinto in esame assurgerebbe a vero e proprio exemplum.
L'impatto visivo indirizza, infatti, l'indagine critica verso il retroterra fiammingo, che vede Jan Brueghel il Vecchio (Bruxelles, 1586-Anversa, 1625) e la sua scuola.
A seconda degli ambiti geografici delle rispettive scuole, il fortunato soggetto viene plasmato dalla sensibilità degli artisti, a loro volta condizionati dal retroterra culturale di riferimento, che nel citato Brueghel privilegia la minuta indagine del reale, prendendo spunto dalla narrazione classica per offrire allo spettatore una rassegna "enciclopedica" di piante ed animali. Ciò determina un taglio compositivo che pone in forte risalto il primo piano, popolato da una fitta schiera di personaggi compresi qui sia Diana che Atteone
Quest'ultima opera testimonia l'indubbia penetrazione della cultura nordica nell 'Italia settentrionale, che già in epoca barocca vanta una straordinaria
assimilazione.
Le assonanze compositive con il dipinto oggetto di studio appaiono senza dubbio stringenti -a ribadire quanto appena riferito-, sebbene quest'ultimo se ne discosti in modo netto sul piano stilistico e formale, l'autore del nostro dipinto trasferisce il medesimo tema sulla tela attraverso un linguaggio sciolto ed immediato, obliterando la grafia accurata e la lenticolare cura del dettaglio in favore dell' atmosfera e della forza del colore.
Ingredienti, questi ultimi, basilari anche per la ricetta pittorica veneta.
Mai prima d'ora ci si era trovati dinnanzi ad una contaminazione così coraggiosa ed affascinante tra due scuole pittoriche -che rappresentano altresì due distinte visioni del mondo e dell'arte-, attuata da un maestro cresciuto nelle Fiandre ed emigrato nei territori della Serenissima, come accadde a Emest Daret, meglio conosciuto come Monsù Emesto (Bruxelles 1670 - Venezia post 1725).
Noto per i suoi paesaggi con scene popolaresche,nella fattispecie si dimostra personalità assai ricca di stimoli e molto più complessa di quanto sinora le testimonianze pittoriche ci abbiano tramandato.Uno dei suoi caratteri-guida, immancabile in ogni sua opera, è un'ampia prospettiva ricca di natura sullo sfondo con un invece ricco primo piano di personaggi, come notiamo nella costruzione di questa opera.
Il ductus, inoltre, vivace ed accattivante, esprime nella pennellata materica lo spirito dei "pionieri" ovvero della prima generazione di paesaggisti e vedutisti fiamminghi giunti fino a Venezia, che avrebbe gettato le basi per conferire una nuova identità ai "generi foresti", inaugurando le "magnifiche sorti" del secolo d'oro.
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Dr. Riccardo Moneghini
Storico dell' Arte