Il verbo mannequiner (dal quale deriva il termine italiano manichino) appare per la prima volta nella Francia del diciottesimo secolo e viene usato per descrivere l’atto di drappeggiare abilmente il tessuto su un manichino con un effetto naturale (J. MUNRO, Silent Partners: Artist and Mannequin from Function to Fetish, Fitzwilliam Museum, Cambridge, 14 ottobre 2014 – 25 gennaio 2015, catalogo della mostra, p. 28).
“La figura umana articolata fatta di cera o legno è stata uno strumento comune della pratica artistica europea fin dal XVI secolo. Le sue membra infaticabili e la sua silenziosità hanno permesso all’artista di studiare le proporzioni anatomiche, fissare una posa secondo il proprio gusto e perfezionare la rappresentazione di drappeggi e vestiti. Nel corso del XIX secolo, tuttavia, il manichino (o lay figure in inglese) gradualmente emerse dall’atelier per diventare un soggetto a sé stante, prima con umorismo, poi in modi più inquietanti, giocando sulla snervante presenza psicologica di una figura realistica ma irreale, veritiera ma senza vita.
Nonostante la pletora di effigi e avatar umani, sia virtuali, sia reali, che abitano la nostra esistenza del XXI secolo, il manichino continua a affascinare e a disturbare, una nave vuota per le nostre paure e fantasie …” (J. MUNRO, op. cit., introduzione).
“… Come strumento nell’arsenale dell’artista, tuttavia, i manichini erano nascosti alla vista e raramente, se non mai, inclusi nelle rappresentazioni dello studio dell’artista – la loro presenza accennava al faticoso atto della pittura e diminuiva la percezione dell’artista come genio ispirato …” (J. MUNRO, op. cit., p. 2)