L'autore della Vulgata è adagiato sulle dure rocce, entro una luminosa radura. Quasi ignudo, cinto solo dal mantello rosso carminio, attributo che allude alla sua autorevolezza e alla dignità di cardinale mai tuttavia accolta per non cedere alle vanità terrene, poggia il palmo della mano sinistra sulle Sacre scritture, il polso avvolto dalla corona del rosario.Dappresso è una grezza e improvvisata croce, fulcro dell incessante preghiera, composta da due legni annodati. Il braccio destro è levato al cielo, le dita aperte a trasmettere la tensione spirituale ed emotiva dell eremita. Rivolto verso Y'alto è anche lo sguardo intenso, quasi stravolto, la bocca schiusa come in un gemito, gli occhi gonfi di lacrime. Tra il folto fogliame degli alberi egli scorge e ode la tromba del giudizio universale, che richiama la visione dell' Angelo annunciante l'ultimo giudizio divino. Il Padre della Chiesa meditò senza sosta sull' Apocalisse, epilogo della Verità rivelata da Dio all'uomo e sigillo dell'intera vicenda umana. Girolamo scrisse: "Nell' Apocalisse di Giovanni tante sono le parole, altrettanti i misteri...Sotto ogni parola si nascondono molteplici verità" (Lettere 53, 9). A tale passo si collega la raffigurazione dell'esperienza trascendente vissuta dal santo. Quella meno frequente - per lo più cinquecentesca - che vede Girolamo circonfuso da numerosi emblemi giovannei, frammenti della "Verità ridotta a simboli"; e quella peculiare dell'eta barocca,che prevede una più sintetica e quasi drammatica condensazione dell'evento soprannaturale, con l'eremita che avverte lo squillo della tromba giungere dall'alto: è esattamente il taglio interpretativo offerto da questo dipinto.
Il potenziale retorico e patetico del tema trova nell'opera qui commentata particolare forza grazie alla qualità del mezzo pittorico, alla vitalità della pennellata libera ma sapientemente guidata, corposa e al contempo fluida. All'altezza del dipingere corrisponde uno spettro molto ampio della cultura figurativa che si esprime sia nella parte figurativa, sia in quella del paesaggio. La prima caratteristica fondamentale è rappresentata dall'implicita assonanza con il gusto giordanesco dell'immagine, un aspetto che ci porta senza dubbio a Napoli. Il profilarsi del santo nello spazio, la tensione che ne anima le pose pletoriche per diagonali, lo scorcio del volto sono tutti elementi di matrice giordanesca; ma pescano dall'eredità del grande artista napoletano anche i connotati del paesaggio fronzuto, ilrimarcato lumeggiare biancastro sulle chiome spesse o le creste bluastre dei monti che si stagliano su un cielo striato ma molto luminoso. Pur senza voler individuare raffronti troppo stretti, sono diverse le opere del Giordano maturo a prestarsi a un raffronto, come ad esempio San Francesco riceve le stimmate a Montelupo fiorentino, dipinto del 1689. Per non dire dei possibili richiami alla fase ultima dell'artista napoletano, ormai all'alba del nuovo secolo, improntata a inusitata libertà pittorica. È però ben chiaro che entro il perimetro del nostro San Girolamo si susseguono altri eventi e che non ci troviamo affatto di fronte a un mero epigono del protagonista della pittura partenopea. La vivacità interpretativa, l'acuirsi del registro espressivo ed emotivo, il frammentarsi della pennellata in un ductus vibrante e quasi già rocaille ci portano ben oltre il Giordano e ci fanno ad esempio avvertire l'eco di Giacomo del Po, il più bizzarro degli esponenti napoletani tra la fine del Sei e l'inizio del Settecento. Ma la partitura cromatica succosa e la brillantezza del colore, così diverse dal tratto tremulo e opalescente di Giacomo, sembrano fare storia a sé e persino presupporre un dialogo diretto con la cultura veneziana, ovviamente in misura ormai diversa e aggiornata rispetto allo spirito neo-veneto di fondo espresso dal Giordano tramite il Cortona.
Dobbiamo inoltre ammettere un rapporto molto interessante ed eloquente con le istanze della pittura genovese del tardo Seicento, che se da un lato giustificano l'eco del Baciccio (la solarità del paesaggio la dice lunga in tal senso), dall'altro riescono persino a farci intuire il mondo di Gregorio De Ferrari e di Domenico Piola, protagonisti della pittura ligure di fine secolo e intelligenti preannunciatori della cultura settecentesca.
Tutti questi aspetti convergono sulla personalità di uno straordinario interprete della pittura napoletana di fine secolo: Domenico Antonio Vaccaro. Artista dotato, figlio dello scultore Lorenzo, Vaccaro è la figura chiave di quelle tendenze che, non senza implicita polemica,scossero il panorama partenopeo al di qua del ritorno di Giordano dalla Spagna (1702). Lo scenario di fine Seicento si stava sempre più consolidando e biforcando in due poli contrapposti. Da un lato Giordano e i giordaneschi, fautori di uno spirito ancora profondamente barocco del dipingere ma carente di nuovi stimoli; dall'altro Francesco Solimena, iniziatore di una visione più temprata e classicista, latore di istanze improntate ad un razionalismo che esaltava il vigore disegnativo e la forza della luce. Dopo gli inizi all'ombra del padre scultore (peraltro fortemente osteggiati dal genitore che auspicava per il figlio un futuro da giurista), Domenico Antonio entrò nella bottega di Solimena, traendo insegnamenti che appaiono però molto più efficaci ed evidenti nella sua fase matura, dopoi1 1720. Di fatto tutta la sua produzione giovanile, all'incirca tra il 1696 e il 1705, pizzica corde ben differenti dal linguaggio pausato e composto del maestro. Come ha progressivamente messo a fuoco la critica, a partire dalle acute e illuminanti aperture di Ferdinando Bologna (1958), la personalità di Vaccaro sottende uno spirito tanto colto quanto alieno al conformismo del Solimena.Già i contemporanei, del resto, scorsero in Iui “la liberta del genio..un cervello tutto fuoco e vivezza" (Roviglione 1731), mentre il De Dominici(1743) ne confermava l'indipendenza, dicendolo "portato dal suo gran fuoco a dipinger d'invenzione". La sua fisionomia è ben delineata dai primi lavori che poggiano sulla testimonianza del biografo De Dominici, come la Visione di San Guglielmo d'Aquitania (fig. 1) dipinta verso il 1696 per la chiesa di Sant'Agostino degli Scalzi a Napoli (in deposito al Museo di San Lorenzo Maggiore).Un dipinto in cui la luce gioca un ruolo ben diverso dai precetti di Solimena, dove le figure e la natura sono pervase da uno spirito inquieto, da uno sperimentalismo fantasioso ed emotivo che nulla possiede di accademico e razionale. Vaccaro fa proprie ed anzi accresce quelle tendenze alternative che attraversavano la cultura napoletana, intessendo un dialogo aperto con Giacomo del Po, di cui anticipa anzi alcune soluzioni (Spinosa 1994).Nondimeno, il suo orizzonte si dimostra aperto verso l'esterno e in sintonia con il barocco di matrice romano-genovese, respirato probabilmente in occasione di un precoce soggiorno nell'Urbe.
La "nuova maniera" e l'impeto inventivo di Vaccaro furono particolarmente graditi nell'ambito della pittura profana e di storia. Il de Dominici è il primo a ricordare l'impegno del napoletano nell'esecuzione di preziosi dipinti su rame destinati a due scrigni o stipi per Carlo II di Spagna. I manufatti reali, presumibilmente principiati verso il 1698-1699, non videro la conclusione per via della morte del sovrano nell'anno 1700 e i dipinti eseguiti dal Vaccaro furono così acquistati dall'ammiraglio inglese Binks, appassionato collezionista di pittura napoletana. A tale gruppo, disperso in diverse collezioni, appartengono anzitutto gli olî su rame raffiguranti Meleagro uccide il cinghiale e Apollo saetta i figli di Niobe nella collezione Riechers a Neuilly (figg. 2-4). Già attribuiti a Giacomo del Po, questa coppia di dipinti è stata rivendicata al Vaccaro da Nicola Spinosa che ne ha riconosciuto l'esatta origine. La precedente svista attributiva è sintomatica dell'orientamento di stile di Domenico Antonio,che qui supera abbondantemente l'orizzonte del collega partenopeo, imbastendo un linguaggio che si dimostra in grado di mediare il miglior giordanismo con le istanze genovesi. Difficile, ora, non accorgersi dell'identità di mano tra i rami e il San Girolamo, nel quale ricorrono le stesse deformazioni espressive dei visi stravolti (che svelano in controluce gli aguzzini della Santa Caterina rifiuta di adorare gli idoli di Giacomo del Po), il tono tumultuoso ed energico, gli accordi cromatici vividi e quello spirito descrittivo della natura che procede senza minuzie, ma con un fare disinvolto e al contempo plastico.
II confronto si fa ancora più significativo con un terzo rame della sventurata serie spagnola,il Ratto di Ganimede in collezione privata (fig. 5), ancora riconosciuto dallo Spinosa (si veda Settecento napoletano 1994). In questo dipinto si respira lo stesso approccio mentale, il tratto nocchiuto ed eccentrico delle figure barbute, il loro scomposto gesticolare a palmi aperti; ma anche la tavolozza rutilante e sanguigna, con i tipici drappeggi strizzati e pregni di luce. Vaccaro raggiunge dunque esiti di altissima qualità in pregevoli composizioni di proporzioni medie o piccole, non certo monumentali, allietate da inserti paesistici nei quali alligna una larghezza di quinte fantasiosamente ricreate. Negli arbusti liquescenti e nelle chiome picchiettate da una luce di taglio si percepisce il tratto veloce ed efficace dell'artista,disinteressato a pedanti e placide chiusure disegnative destinate a smorzare la temperatura altissima del dipingere. È questa la bravura e la singolarità di Vaccaro ventenne. La stessa che Francesco Lattuada ha scorto in uno stupefacente dipinto destinato a figurare tra le vette più alte del napoletano. Mi riferisco a Cristo dipinge l'immagine dell'Immacolata con Dio Padre e San Michele arcangelo, battuta da Blindarte (19 maggio 2011,lotto 117). Una tela destinata alla devozione privata più che un bozzetto in funzione di un'opera di grandi proporzioni (fig. 6). La prova pittorica, che si profila straordinaria anche sotto il profilo iconografico, mette a nudo una pennellata sciolta e nervosa, una partitura cromatica crepitante e di sapore veneziano, acuita dal fondo bruno: aspetti che Lattuada associa al bozzetto a Capodimonte per la volta della sacrestia di San Domenico Maggiore,commissione poi affidata al Solimena.I puntuali riscontri con il nostro San Girolamo - si veda il volto di Dio Padre o gli incarnati riverberanti di luce, per non dire dell'acceso carminio del mantello di San Michele (figg. 7.S) - ne fanno saggio fondamentale sia per l'attribuzione a Vaccaro, sia per focalizzare la cronologia del dipinto qui studiato, che oscilla tra la commissione degli stipi spagnoli al tramonto del Seicento e il bozzetto di Capodimonte in apertura del nuovo secolo. È questo il momento più alto della parabola dell'artista che, alla morte del padre Lorenzo nel 1706, si dedicherà prevalentemente alla gestione della bottega e alla scultura, per riprendere con maggior lena i pennelli negli anni Venti, ma con esiti tanto più stemperati e conformati alla voga del Solimena.
La collocazione temporale a cavallo dei due secoli trova ulteriore linfa a ruota dell'ennesimo brano profano di Vaccaro: I'Apollo e Marsia (più correttamente Giudizio di Mida) del Victoria and Albert Museum a Londra, un dipinto che fungeva in origine da coperchio di clavicembalo (fig. 9).
9
È questo uno dei brani che attestano l'ampiezza culturale del napoletano e quell'apparente
Benetica lagunare che l'ha fatto ritenere opera veneziana di inizio Settecento al di qua del
anneggiare si fa meno focoso rispetto aiprimissimi frutti creativi e per contro viene modulato in forme più propriamente scultoree una linca di tendenza che si percepisce via via nelle opere prodotte nella maturita dl'artista- in questa tela si lasciano ben cogliere le palmari affinita stilistiche e tipologiche della vegetazione succulenta (fig. 10), sbalzata dalla luce e modulata in gamme fredde di verde fluorite e verde dioptasio. Riferimenti bibliografici:
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22 Settembre 2023
Giuseppe Sava