Coppia di paesaggi con rovine antiche e personaggi
(2) olio su tela, cm 23,5 x 32
Con cornici, cm 49,5 x 40
Il mito dell’eterna Roma, affascinante iniziatore del mito del Grand Tour, aveva natali antichi. Già durante gli stessi anni dell’Impero, misticismo e realtà si mescolarono nella creazione di racconti leggendari e documenti storici, intrecciando le testimonianze concrete della costituzione di una Repubblica con il colore della tradizione pagana. Nel Seicento il paesaggismo assurse a compiuto tema, celebrato in patria nostrana nonché da pittori francesi e nord-europei. Se da un lato questo soggetto consentiva di dare spazio alle fantasie più storiciste di artisti e committenti, consentendo di replicare con maggiore o minore invenzione le meraviglie antiche, dall’altro poteva dimostrare la perizia tecnica dei pittori nel rendere lenticolarmente foglie e minuti dettagli naturalistici. Fine ultimo del paesaggismo fu insomma rendere la sconfinata impressione della natura mediante un’estetica al tempo stesso sublime e scientifica. Il genius loci romano veniva tradotto in pittura mediante un costante rinvio al tempo classico: cristallizzarono l’amenità delle estese lande romane in primis Gaspard Dughet (1615-1675), artista romano di origini francesi, parente di Poussin. Quattro sue tele, affrescate sulle pareti del palazzo in piazza Navona di proprietà di papa Innocenzo X costituirono una testimonianza sospesa della massima estetizzazione delle campagne romane. Similmente, per Palazzo Doria Pamphilj in via del Corso, Dughet licenziò altre sette enormi tele, arricchite da vispe figurine spillate dal pennello di Guillaume Courtois. Anche Agostino Tassi, Poussin e Giovanni Ghisolfi furono dediti al perfetto connubio con la vastità di un immancabile cielo al tramonto.
Nella presente coppia di dipinti, ai riferimenti alla statuaria antica si allinea la delicata riscoperta della natura dalla bellezza incontaminata, entro cui la coesistenza umana è possibile, se illuminata e razionale quanto quella di fattura classica. In una tela, il rosato riverbero del tramonto accarezza l’arco di una superba roccia scoperta, aperta su di una eterea scalinata ascendente verso la luce del giorno. Nell’ombrosa radura attorniante il monumento naturale è un gruppo di pastori in riposante placido dialogo e, invenzione stavolta umana, una scenografica fontana costruita con una ripetizione modulare di uno pseudo tempietto, visionaria ziqqurat occidentale. Nel secondo dipinto, egualmente spartito tra vezzo vegetale e cielo, la visione si estende stavolta su una pianura sterminata che si scioglie tra le nubi del cielo. In primo piano, un gruppo di donne e bambino dialoga animatamente con un personaggio intento ad ascoltare: alla dinamicità umana si oppone così la dignità impassibile della scultura che le osserva dall’alto di un basamento di colonna decorato con festoni, probabilmente raffigurante Bacco, considerata la coppa e l’animale alle sue spalle. Il freddo gruppo di giovinetti chiassosi alle sue spalle, immobilizzati nella pietra, fa invece da perfetto contraltare al gruppo pulsante di viandanti al suo cospetto.
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